PA e software libero: la Francia ci prova. L’Italia?

“Ogni individuo ha il potere di fare del mondo un posto migliore.”
Sergio Bambarén

Anche solo chiederselo è un inizio, considerando che in Italia sembra follia anche solo pensarlo: il software proprietario nella PA dovrebbe essere una eccezione, non la regola.

A chiederselo, ovviamente, sono i nostri cugini oltralpe: la missione informativa parlamentare francese “Costruire e promuovere la sovranità digitale nazionale ed europea“, per voce del suo relatore, il deputato Philippe Latombe, nella proposta n.52 ha scritto: Imporre all’amministrazione l’uso sistematico del software libero, facendo eccezione per soluzioni proprietarie.

“L’uso del software libero nelle pubbliche amministrazioni deve essere fortemente incoraggiato e diventare un principio con solo eccezioni debitamente giustificate. Si tratta di ridurre la quota di soluzioni software proprietarie, soprattutto extraeuropee, utilizzate di default mentre soluzioni alternative hanno dimostrato la loro utilità.

Philippe Latombe, Administration: un rapport parlementaire prône le recours systématique au logiciel libre, ZDNet

Utilizzo software libero ormai da anni, sia a casa che a lavoro. E lavoro in una PA. Occupandomi di ICT a livello sistemistico, è quasi una scelta obbligata: moltissimi servizi ormai funzionano su piattaforme open source. Non c’è da scandalizzarsi: dove è necessario un controllo stringente sulle funzionalità dei software, le soluzioni open source sono la strada migliore. Anche nella realizzazione di servizi critici molte realtà hanno ormai puntato su soluzioni libere, per la possibilità di accedere al codice sorgente e adattarlo alle proprie esigenze.

La maturità di molte soluzioni open source ormai è al pari, se non superiore, a molte alternative commerciali. E spesso, diciamocela tutta, a cosa serve una “Ferrari per andare a fare la spesa?”.

Come giustamente si è domandato Latombe, ma perché nelle pubbliche amministrazioni le soluzioni open-source sono una eccezione e non la regola? Cosa che impedisce a molte PA di adottare, semplicemente, piattaforme e software open source al posto di costose alternative commerciali? Eppure la normativa italiana, nel “famoso” CAD –Codice dell’Amministrazione Digitale (art. 68 comma 1) ma, soprattutto, nel Piano Triennale ICT 2020-2022, nei suoi principi guida, lo dice chiaramente:

open source: le pubbliche amministrazioni devono prediligere l’utilizzo di software con codice sorgente aperto e, nel caso di software sviluppato per loro conto, deve essere reso disponibile il codice sorgente.

Piano triennale ICT per le PA 2020-2022

I motivi sono banali e, per aiutare a comprenderli chi non è del settore, proverò a richiamare una analogia automobilistica: usare software proprietario è come acquistare una auto con il cofano chiuso a chiave, di cui solo le officine autorizzate hanno la chiave per aprirlo. E spesso, nel caso del software, di officine autorizzate ne esistono solo una o due.

Ma c’è di più: del software commerciale spesso non si acquista il “software” (prodotto) ma solo la “licenza d’uso”. Significa, essenzialmente, che si paga il diritto a usarlo per un certo periodo. Dopo di ché, o si rinnova la licenza o il software smetterà di funzionare. E con lui, tutti i dati (salvati ovviamente nel suo formato proprietario e segreto) che ha generato. Si chiama “lock-in“: i clienti si trovano praticamente costretti a dover pagare la licenza d’uso, al prezzo deciso dal produttore, per continuare a poter usare un prodotto sul quale hanno i loro dati e che utilizzano per lavorare.

Se una azienda privata può ovviamente prendere la decisione che ritiene più opportuna per il suo business, per le PA la questione è differente: non solo parliamo dei soldi dei contribuenti (che andrebbero spesi in modo oculato) ma, e questo è forse peggiore, dei dati di tutti noi cittadini. Parliamo di “Dati di Stato“, di cui non possiamo permetterci di perdere né il controllo né il possesso, pena una grave perdita di sovranità “digitale” che nel 2021 non è sostenibile.

Peraltro, come avete forse notato, la scelta di soluzioni open source per le PA è già indicata dalla normativa. E, come ha ricordato il Dr. Massimo Macchia dell’Ufficio del difensore civico per il digitale per quanto accaduto in Provincia di Bolzano pochi mesi or sono, la valutazione comparativa per le soluzioni software è obbligatoria.

Già, perché le PA sono tenute, prima di ogni acquisizione di soluzioni software, a effettuare un confronto tra le possibilità presenti sul mercato: si chiama “valutazione comparativa“, indicata all’art 68 comma 1 del già citato Codice Amministrazione Digitale, che prevede questo ordine di priorità:

a) software sviluppato per conto della pubblica amministrazione;  
b) riutilizzo di software o parti di esso sviluppati per conto della pubblica amministrazione; c) software libero o a codice sorgente aperto;  
d) software fruibile in modalità cloud computing;  
e) software di tipo proprietario mediante ricorso a licenza d’uso;  
f) software combinazione delle precedenti soluzioni.

Attenzione: non parliamo di “facoltà” ma di un vero e proprio obbligo normativo. Se qualcuno dovesse far notare che, al momento, non risultano sanzioni in caso d’inadempienza, ricordo che da pochissimi giorni il CAD è stato aggiornato in merito.

Comunque, al di là degli aspetti squisitamente normativi, credo che all’origine vi sia un problema culturale dettato più da consuetudini e (false) convinzioni che malafede. Oltre a una questione legata all’organizzazione stessa di molte PA: quante, infatti, possono vantare al loro interno strutture e uffici dedicati all’ICT con le competenze, la formazione e il budget adeguato? La scelta del software open source, anche se il panorama sta comunque cambiando, impone una sfida anche “tecnologica” e “culturale” a carico delle strutture stesse. Richiede che vi sia un reparto ICT capace d’interpretare le esigenze del personale e delle strutture, indirizzando in modo pragmatico (e non dogmatico) l’Amministrazione verso le soluzioni più adeguate. Alla fine, l’assenza d’investimenti in uno dei settori chiave della PAl’ICT– ha costretto, per necessità, molte piccole e medie Amministrazioni a scegliere la soluzione più semplice e immediata, che purtroppo non sempre si è dimostrata la migliore, la più economica o all’altezza delle aspettative (Report sulla spesa ICT della PA Italiana, AgID).

Anche la strategia di “cloudizzare” le PA, dismettendo oltre 1000 piccoli e piccolissimi data center sparpagliati per la penisola, spesso senza adeguata gestione, riguarderà solo una parte dell’ICT: negli uffici rimarranno le postazioni e le apparecchiature. Verso le quali dovrà essere attuata una strategia di gestione adeguata per scongiurare i sempre più frequenti incidenti di sicurezza: le soluzioni open source potranno aiutare molto, in questo. E muovere su cloud dati e applicativi potrà contribuire a ridurre le esigenze del personale: applicativi web based necessitano di un sistema operativo e di un browser web, che potranno essere tranquillamente GNU/Linux con Firefox e/o Chrome.

Concludendo, ormai lo scenario del software open source è sufficientemente maturo per offrire una validissima alternativa, se non addirittura un miglioramento come prestazioni e TCO, alle soluzioni commerciali. Credo che una delle “chiavi” da utilizzare siano le valutazioni comparative, strumento indispensabile per riuscire a individuare la soluzione migliore alle esigenze del personale. Nella speranza che i fondi che arriveranno con il PNRR servano, soprattutto, a costruire fondamenta (formazione, competenze) solide del mondo ICT nelle PA, che l’assalto alla diligenza è già iniziato e potrebbe finire molto male.

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