Le città appiattite

Di ritorno da un lungo weekend in giro tra la Tuscia e l’Umbria, dopo aver visitato diversi centri urbani di media grandezza, ho avuto la consapevolezza di come tutti i nostri centri urbani siano ormai simili nelle attività commerciali, “appiattiti” nel franchising e nella ripetizione degli stessi marchi, delle stesse vetrine, delle stesse merci.

Una volta, neanche troppi anni fa, viaggiare era una esperienza culturale anche commercialmente parlando: ogni centro era unico per merci e negozi, tra attività artigianali ed alimentari tipiche del luogo.

Purtroppo oggi ho avuto la tristissima consapevolezza di come sia andata definitivamente perduta questa importante sfaccettatura del nostro Paese, tanto che ormai l’originalità di un centro urbano è ormai relegata esclusivamente alla sua forma ed alle opere artistiche ed architettoniche “peculiari”, mentre l’aspetto più dinamico e popolano -i negozi, appunto- è andato definitamente perduto in favore dei franchising e delle catene di distribuzione.

Non citerò i marchi di cui ho visto innumerevoli vetrine in questi 4 giorni: il medesimo cliché ripetuto innumerevoli volte, con l’intento neppure troppo velato di fidelizzare il cliente, tranquillizzarlo che, ovunque vada, troverà la medesima -fidata- merce.

Non parlerò neppure di come siano ormai tragicamente in via di estinzione alcune attività tradizionali, come i fornai ed i calzolai, scalzati anche loro dalla prepotenza delle grandi catene di generi alimentari che hanno colonizzato i centri delle nostre città e le abitudini alimentari dei nostri concittadini, appiattendo ed uniformando anche i gusti ed i prodotti che riempiono le nostre tavole.

E così sta andando persa anche la nostra tradizione culinaria, ormai appannaggio di pochi (e facoltosi) consumatori critici.

Partiamo dal pane, alimento semplice e tradizionalmente italiano ed immancabile su ogni tavola che si rispetti. Tralasciando le varie “mode” (lievito madre, bio, multicereali….), il pane è uno degli alimenti che più si è uniformato, almeno nell’italia centro-settentrionale. Una volta, lo ricordo, si andava dal fornaio: l’odore del pane si spandeva per la strada e capitava spesso di acquistare una bella e fragrante pagnotta, ancora calda di forno. Ormai però ha preso piede il “pane del supermercato”, spesso precotto (ovvero prodotto in serie, portato a metà cottura, congelato e poi, prima della messa in commercio, finito di cuocere nel forno dell’esercente), con una lista degli ingredienti ben oltre il consueto “Acqua, farina, lievito, sale“. E non chiediamoci neppure che tipo di farine siano usate, la loro qualità, la provenienza….

L’artigianato, altra nota dolente, è stato soppiantato da decine di negozi pieni zeppi di paccottiglia “Made in PRC“, senza alcun valore, realizzata con materiali e criteri di pessima qualità, con costi talmente bassi da rendere ovviamente impossibile qualsiasi tipo di concorrenza. Il poco artigianato che resiste è spesso relegato al ruolo di “souvenir”: ceramiche artistiche, prodotti in legno, gioielli fatti a mano…. ma il “core business“, ovvero gli utensili e tutto quello che riguarda i prodotti necessari alla casa, sono stati ormai tristemente relegati ad una produzione di bassa qualità (e bassi costi).

Stessa sorte è toccata all’abbigliamento, almeno quello mainstream: la stragrande maggioranza della merce che troviamo nei negozi “commerciali” è prodotta in Cina, in Bangladesh o in Turchia. Anche le etichette “Made in Italy”, purtroppo, talvolta mascherano produzioni non italiane e ne risente pesantemente sia il prestigio della manifatturiera nazionale che la qualità dei prodotti.

Il discorso sarebbe sicuramente molto lungo e complesso, ben oltre un semplice post di un blog, ma l’appiattimento delle nostre città, per riprendere un termine coniato da Friedman, è l’effetto più evidente della globalizzazione: senza voler essere un nostalgico nazionalista, per il momento ne abbiamo guadagnato ben poco ma, sicuramente, abbiamo perso tanto.

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