Quante volte, acquistando un capo di abbigliamento o un suppellettile, abbiamo letto quel “made in…“, spesso seguito dal nome di un qualche paese dell’est o con la sigla P.R.C. (Popular Republic of China) ?
Premetto subito che, per questa riflessione, sono stato ispirato da un post su Facebook:
[testimonial name=”Alessandra Ceccherini” site=”Facebook” url=”https://www.facebook.com/alessandra.ceccherini”] vai a comprare della lingerie da Intimissimi e da Tezenis….e scopri che entrambi vengono prodotti in Sri Lanka, da piccole mani cingalesi (quelle che si vedono nella pubblicità) distribuiti in Italia da Calzedonia s.r.l. [/testimonial]
Ogni acquisto, ogni scelta, è comunque un “atto politico”. Politico nel senso che, in qualità di consumatori, siamo stakeholders del Mercato Globale e capaci di influenzarne le sorti.
Dobbiamo infatti considerare ogni acquisto come un “premio” all’azienda che produce il bene, come un “incentivo” a continuare sulla strada intrapresa.
Se da un lato ci sono gli Italiani, alle prese con i salari tra i più bassi d’Europa, che a fronte della crisi (anche occupazionale) si trovano nella necessità di risparmiare, dall’altro le difficoltà burocratiche e l’alta tassazione rendono l’Italia ben poco appetibile per le aziende: il rischio è di produrre beni con costi elevati e, conseguentemente, dai prezzi non concorrenziali.
Così, per rimanere sul mercato e per cercare di far fronte all’invasione, avvenuta qualche anno fa, delle merci a basso costo provenienti dalla Cina, molte aziende italiane hanno deciso di traslocare all’estero, verso Est, dove i costi di produzione sono più bassi, senza ovviamente considerare le tante aziende storiche italiane (s)vendute all’estero:
Dal 2008 al 2012 sono 437 aziende italiane sono passate nelle mani di acquirenti stranieri: questo il dato più clamoroso del Rapporto ‘Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita’ presentato dall’Eurispes. Certificazione ulteriore, se ce ne fosse bisogno, di un made in Italy sempre meno italiano. Certo, i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per portare a casa i marchi italiani, ma sono soldi che vanno alle vecchie proprietà, non portano valore aggiunto alla comunità e, in ogni caso, non valgono certo la perdita dei gioielli di famiglia.[…]
Ci troviamo così marchi italiani che producono all’estero ma che riescono a rimanere sul mercato con merci a basso costo, prodotto da operai sottopagati e sfruttati in contesti dove non esistono, o sono molto deboli, i diritti dei lavoratori.
Dall’altro abbiamo aziende italiane che, traslocando, contribuiscono all’aumento della disoccupazione innescando quella spirale recessiva in cui siamo inesorabilmente risucchiati, con conseguente impoverimento delle famiglie italiane.
C’è poi la questione, niente affatto marginale, del falso “Made in Italy“, che non colpisce solamente i prodotti agroalimentari: il nostro è un marchio conosciuto in tutto il mondo, sinonimo di qualità, e sono tante le aziende senza scrupoli che producono merce contraffatta, creando un ulteriore danno all’economia nazionale.
Alla fine, dopo essere diventati famosi in tutto il mondo grazie alla qualità dei nostri prodotti, ci stiamo “svendendo” a causa della nostra incapacità di adattarsi al contesto mondiale e di reinventare la nostra economia, basandosi su prodotti di qualità.
La politica, la classe politica, dovrebbe occuparsi di questo, detassando il vero “made in Italy”, incentivando le aziende che ancora resistono sul nostro territorio e lavorando sulla forbice salariale tra dirigenti ed operai: dobbiamo recuperare l’enorme problema della capacità di spesa, senza la quale difficilmente il commercio potrà ripartire.