La PA sa tutto di noi. Sa quando siamo nati, dove, quando abbiamo votato, in quale seggio, dove abbiamo abitato in un certo periodo, chi è il nostro datore di lavoro, se abbiamo fatto domanda di disoccupazione, di casa popolare, dell’asilo per il figlio, le attività commerciali, i parcheggi, gli accessi nella ZTL etc etc etc… una quantità infinita di dati, alcuni personali se non proprio sensibili (anche se la nuova normativa tende a superare questa distinzione), conservata dalle PA italiane.
Conservata… ma dove ? E come ?
Con la dead line al 25 maggio per l’attuazione del General Data Protection Regulation (GDPR), anche la PA italiana dovrà in qualche modo conformarsi alla nuova, stringente, normativa europea per la salvaguardia e protezione dell’enorme patrimonio pubblico, intangibile, rappresentato dai nostri dati.
Ma al di là delle normative e degli adeguamenti tecnici ed amministrativi che la PA si troverà ad affrontare a breve (in teoria, avrebbe già dovuto affrontarli), la mia riflessione vuole essere proprio sul valore di questi dati, spesso sottovalutati se non proprio ignorati. Conseguenza, del resto, della scarsa cultura tecnologica ed informatica del nostro Paese, in alto nelle classifiche sul possesso di smartphone pro-capite ma decisamente in basso quando si parla di competenze informatiche, come rivela ad esempio uno studio del MIUR relativamente al mondo studenti, computer e apprendimento, in cui “solo un quarto degli studenti “naviga” in modo “orientato” e “critico”“. Ed ovviamente, in questo studio, parliamo di “nativi digitali“.
Tornando ai dati, ai nostri metadati, allo sterminato patrimonio rappresentato dalle migliaia di faldoni e database sparpagliati per gli uffici degli Enti pubblici italiani, c’è chi ne ha saputo intravedere il valore commerciale, come ad esempio l’IBM, con il quale il Governo Renzi, nel 2016, ha stretto un accordo di collaborazione per il Centro Watson Health italiano. Sia chiaro che, personalmente, sono del tutto contrario a certi utilizzi: i dati pubblici sono di proprietà dello Stato e non devono essere ceduti a privati per nessun motivo, soprattutto se commerciale. Tuttavia i dati pubblici sono anche una risorsa preziosissima per fini di studio, tanto che da qualche anno ormai sta prendendo piede una serie di iniziative connesse agli Open Data, tra cui il Portale dati.gov.it, un aggregatore dei dataset messi a disposizione dalle PA italiane: con tali dati è stato possibile lo sviluppo di servizi al cittadino come ad esempio portali sul trasporto pubblico urbano, come Travic che, sfruttando proprio gli open-data sul TPU, visualizzano su mappe geografiche la posizione dei mezzi pubblici.
C’è quindi un enorme valore, economico e sociale, sui dati e metadati in possesso della PA. Valore che deve essere prima di tutto riconosciuto, attraverso regolamenti che ne chiariscano gli ambiti d’uso, e poi utilizzato per accrescere e migliorare i servizi al cittadino, sfruttando ad esempio i rapporti con gli Enti di ricerca e le università, stimolando l’innovazione.