Giovedì scorso, alla vigilia di natale, ho assistito inorridito alla breve discussione tra una cliente ed un addetto del supermercato. La cliente, visibilmente infastidita, ha chiesto se “domani mattina erano aperti“. Al che l’addetto, gentilmente, ha risposto che, essendo Natale, sarebbero stati chiusi. E chiusi anche il giorno seguente, Santo Stefano. Avrebbero aperto, in via straordinaria, solo domenica 27. La cliente ha sibilato qualcosa tra i denti e se ne è andata.
E’ chiaro che un episodio del genere rappresenta una estremizzazione della sempre più frequente abitudine ad avere sempre e comunque i negozi aperti, con risvolti inquetanti, soprattutto nelle consuetudini e negli usi della nostra società.
Capisco che durante la settimana può essere difficile trovare un momento per fare la spesa ma mi chiedo cosa porta le famiglie a trascorrere le domeniche pomeriggio nei centri commerciali o nei supermercati. Mi chiedo se ormai la società consumistica in cui siamo immersi, o sommersi, abbia definitivamente stravolto le nostre abitudini familiari su cosa vuole dire “stare insieme”, traslando il focolare domestico direttamente sulle corsie dell’Ipercoop, nel bisogno costante di comprare, spendere, acquistare. In ogni momento, ovunque, l’esigenza di stare semplicemente insieme è stata sostituita dalla necessità di acquistare, di trovare conforto nelle familiari scaffalature dell’Ikea, nelle luci colorate del Mc Donald o nei confusi negozi cinesi che sempre più prepotentemente stanno sostituendo le attività commerciali locali.
Negli ultimi 10 anni gli spazi urbani della socialistà si sono spostati dalle vie e le piazze dei centri urbani alle corsie dei supermercati: basta andare una domenica pomeriggio qualunque in un qualsiasi centro urbano per rendersene conto, perché in giro ci sono solo anziani e turisti.
Ovviamente tutto questo dimostra la vittoria della TV commerciale e della pubblicità, che con il costante martellamento di bisogni effimeri di consumare ha plasmato non solo le nostre abitudini culinarie ma soprattutto sociali. Non a caso assistiamo al moltiplicarsi di centri commerciali sempre più grandi, simili a veri e propri “mondi sintetici”, dove il cittadino diventa cliente non appena varca la soglia rassicurante della porta scorrevole che, con il suo clima piacevole (tiepido d’inverno, fresco d’estate) e l’illuminazione piatta accoglie il consumatore e lo culla dolcemente nel suo momento di desideri da soddisfare. E forse, sempre non a caso, la nostra società sta vivendo un individualismo ed un egoismo soprendente: il consumatore perfetto, che desidera, che ambisce, che spende e che vive una costante competizione con l’altro.
Le ultime notizie dai paesi del nord ci dicono che i modelli consumistici stanno vivendo un momento di declino, con sempre meno utenti nei centri commerciali e più attenzione ai prodotti tipici ed una riscoperta delle tradizioni e della socialità. Forse tale vento del cambiamento sta arrivando anche in Italia, lentamente, come è nostra abitudine.
Ma la domanda successiva, che anche gli altri si stanno facendo, è: cosa faremo delle tonnellate di cemento che abbiamo riversato per la costruzione di questi mondi del consumo ? E come ricostruire il tessuto sociale ormai disgrerato e costantemente minacciato da xenofobi e idee razziste ?