Perchè gli articoli scientifici prodotti dai ricercatori delle università pubbliche non sono pubblici ?

Una bella domanda, eh ?

La questione mi è tornata in mente dopo aver visto il documentario su Aaron Swartz, The Internet’s Own Boy, su Netflix e mi sono ricordato di quanto, 3 anni fa, lavorando nel Servizio Bibliotecario di Ateneo dell’Università di Siena, mi ero interessato più da vicino alla questione dell’Open Access e promosso il progetto OASi (Open Access Siena), un repository senese basato su EPrints per raccogliere tutta la produzione scientifica dell’Ateneo. Il tutto, purtroppo, naufragò miseramente per questioni politiche proprio a pochi passi dalla sua apertura, dopo che per mesi avevo lavorato al progetto.

Tornando al problema iniziale, la filosofia Open Access

è una modalità di pubblicazione del materiale prodotto dalla ricerca, come ad esempio gli articoli scientifici pubblicati in riviste accademiche o atti di conferenze, ma anche capitoli di libri, monografie, o dati sperimentali; che ne consente accesso libero e senza restrizione.

Per chi è a digiuno su come funziona il mondo scientifico, è bene sapere che i ricercatori, al termine delle loro ricerche, quando pubblicano gli articoli scientifici cercano di apparire sempre sulle riviste più prestigiose (probabilmente tutti avete sentito parlare di “Nature“), che conferisce alla loro ricerca lustro e valore. Ovviamente per poter essere pubblicati, oltre a dover passare attraverso il processo di peer reviewing, è anche necessario cedere i diritti di pubblicazione e divulgazione alla casa editrice, che si troverà formalmente in possesso del materiale scientifico prodotto. Sembra superfluo, ma è bene ricordarlo, che l’accesso alle riviste scientifiche è a pagamento.

Quindi, ricapitolando, il ricercatore compie la ricerca, scrive l’articolo, cede i diritti di pubblicazione alla casa editrice, la casa editrice pubblica la ricerca sulla rivista e chi desidera consultarla deve pagare. Semplice, no ? E’ proprio attraverso questo meccanismo perverso che case editrici come Elsevier o Thomson Router o JStor sono diventate grandi e ricchissime: da un lato posseggono quasi gratuitamente un enorme quantità di materiale scientifico e dall’altra ne concedono la fruizione solo a pagamento.

Inoltre, considerando che spesso le ricerche scientifiche partono anche dai risultati di altre ricerche scientifiche e che, quindi, la consultazione di tale materiale è pane quotidiano per studenti, docenti e ricercatori, le Università ed altri Enti acquistano abbonamenti di accesso alle riviste scientifiche di loro interesse a cifre decisamente non trascurabili, che superano tranquillamente anche i 500.000€ (la cifra dipende ovviamente dagli accordi con l’editore e sul numero di riviste alle quali si desidera accedere).

La domanda è banale: per quale motivo una ricerca condotta da un ricercatore dipendente di un Ateneo pubblico, finanziato pertanto dallo Stato, deve essere poi “regalata” ad un soggetto privato che la rende fruibile solamente dietro pagamento di un corrispettivo ?

Il problema più grande, sul quale lo stesso Aaron Swarz puntava il dito, è la limitazione di accesso alla ricerca scientifica da parte dei paesi poveri che, non potendo permettersi le esose fee di abbonamento imposte dalle case editrici, sono letteralmente tagliati fuori dalla ricerca scientifica mondiale.

Il problema è stato già ovviamente affrontato, tanto che molte Università, compresa quella di Siena, hanno sottoscritto la Dichiarazione di Berlino, che proprio nelle premesse dichiara:

For the first time ever, the Internet now offers the chance to constitute a global and interactive representation of human knowledge, including cultural heritage and the guarantee of worldwide access.

Garantire l’accesso a tutto il mondo alla conoscenza umana ed al patrimonio culturale: è chiaro, se non che questo principio cozza terribilmente con le enormi opportunità di guadagno di chi, con la ricerca scientifica, guadagna fior di milioni rivendendola alle stesse istituzioni che la producono.

Come si apprende inoltre dalla CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), esiste anche a livello italiano un gruppo di lavoro che:

lavora all’elaborazione di linee guida, non solo per diffondere all’interno della comunità accademica la consapevolezza dei vantaggi derivanti dalle pubblicazioni ad accesso aperto, ma anche, e soprattutto, per fornire indicazioni sulle migliori pratiche dell’accesso aperto, cioè sulle modalità di creazione e di gestione di archivi aperti, sulla tipologia dei materiali che dovrebbero essere sottoposti a deposito e sulla realizzazione di riviste elettroniche che siano pienamente interoperabili con gli archivi aperti.

Ma perché i ricercatori regalano la produzione del loro lavoro alle case editrici ? Beh, essenzialmente perché la pubblicazione su una rivista scientifica assicura la disseminazione della ricerca stessa ed aumenta la possibilità di essere citati e, quindi, di accrescere l’impact factor del proprio lavoro. Conseguentemente aumenta l’importanza e la fama del ricercatore stesso: a che servirebbe pubblicare articoli se nessuno riuscisse a trovarli ed a leggerli ? 

Tuttavia è bene ricordare il problema etico di fondo: se un ricercatore è pagato da un Ente pubblico e svolge le sue ricerche all’interno di un laboratorio finanziato da soldi pubblici, anche il prodotto del suo lavoro deve essere pubblico. Ed è assurdo che un ricercatore dell’Università di Siena debba acquistare la ricerca svolta da un suo collega perché i diritti di uso e di pubblicazione sono stati regalati alla casa editrice. Per questo sarebbe opportuno che ogni Ateneo o Ente di Ricerca pubblico avesse il suo Repository Istituzionale ad Accesso Aperto ma purtroppo, ancora oggi, non c’è alcun obbligo di legge e difficilmente sarà possibile scalfire lo strapotere delle lobby dell’editoria su questo argomento. Mi consolo pensando che la stessa Crui dichiara che

nel prossimo futuro sarà un’anomalia per una università o per un ente di ricerca non avere il proprio archivio istituzionale: “non ci si può privare di uno strumento unico e strategico per pubblicizzare la produzione intellettuale dell’istituzione, massimizzandone la visibilità e l’impatto nei confronti dei vari portatori di interesse”

Sarebbe da chiedersi quando sarà il loro “prossimo futuro” visto che in 10 anni dalla costituzione del gruppo di lavoro, al di là di qualche sporadica esperienza (come Pleiadi) e di qualche passo anche legislativo sul tema (Legge 112 7 ottobre 2013 per “la tutela, la valorizzazione e il rilancio dei beni e delle attivita’ culturali e del turismo”), la politica nazionale sul tema è rimasta immutata.

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