Roma ha speso 6.300.000€ + IVA per le licenze Microsoft

“Il fine può giustificare i mezzi purché ci sia qualcosa che giustifichi il fine.”
Lev Trotsky

L’Amministrazione Capitolina ha speso € 6.326.995,50+IVA 22% per la fornitura di Licenze d’uso Microsoft Enterprise Agreement e dei servizi connessi dall’ 1 gennaio 2020 al 31 dicembre 2022.

La determinazione dirigenziale n. 574 del Dicembre 2019 contiene, oltre alla cifra per le licenze, tutta una serie di altre informazioni interessanti, tra cui la conferma che il Comune di Roma aveva avviato una transizione verso piattaforme e soluzioni FLOSS (Free Libre Open Source Software) che, a differenza delle soluzioni Microsoft, non richiedono alcun costo di licenza.

il Dipartimento Trasformazione Digitale, in linea con le azioni attuative degli indirizzi e delle linee guida per l’impegno all’uso di software libero o a codice a sorgente aperto di Roma Capitale, ha organizzato nel 2019 una taskforce che sta gradualmente introducendo soluzioni FLOSS su oltre 5.000 PdL dell’Amministrazione, minimizzandogli impatti derivanti da eventuali incompatibilità con altri sistemi in uso presso le Strutture” si legge nella Determina, a cui subito dopo si precisa che le “Strutture capitoline hanno comunicato l’esigenza di mantenere la disponibilità dei prodotti software Microsoft connesse alle attività svolte dagli Uffici” perché, e qui viene secondo me la parte interessante, “e, pertanto, si rende necessario garantire i prodotti indispensabili per: il funzionamento del Sistema Operativo Windows delle restanti postazioni di lavoro; l’accesso al dominio di Roma Capitale necessario all’utilizzo dei sistemi informativi dell’Ente; disporre della suite di produttività Office 365 Enterprise; l’utilizzo delle funzionalità di archiviazione One Drive integrate con i servizi di dominio di Roma Capitale; l’accesso agli strumenti di condivisione e collaboration denominati ‘Sharepoint’;“.

Un ottimo esempio per definire il “lock-in“, ovvero quelle strategie messe in atto dalle multinazionali del software per imbrigliare l’utente a sé, rendendo difficile liberarsi da lacci e lacciuoli dovuti a incompatibilità, impossibilità d’integrazione, reticenza degli utenti a cambiare abitudini e stile di lavoro, necessità d’interazione con le altre realtà pubbliche e private, anch’esse nella medesima situazione.

Negli anni, in particolare negli ultimi, la situazione sta notevolmente mutando anche a seguito del cambio di paradigma, che vede una forte spinta verso le piattaforme SaaS (Software as a Service), e all’introduzione di normative che, in qualche modo, cercano di spingere le PA ad adottare strumenti e formati liberi e standard. In particolare è il CAD – Codice Amministrazione Digitale – a spingere per promuovere “l’integrazione e l’interoperabilità tra i servizi pubblici erogati dalle pubbliche amministrazioni in modo da garantire a cittadini e imprese il diritto a fruirne in maniera semplice” (art. 12 comma 2).

Se l’adozione del CAD, negli anni, non mi sembra sia stato particolarmente stimolato dalle varie realtà istituzionali, che spesso non hanno risorse né le competenze necessarie, è il capo IV “Sviluppo, acquisizione e riuso di sistemi informatici nelle pubbliche amministrazioni” quello indubbiamente più rivoluzionario, poiché stabilisce tutta una serie di novità tra cui, ricordiamo:

Sul riuso, tema importante e centrale nel mondo FLOSS poiché stimola un continuo miglioramento delle soluzioni software, senza vincolarle alle decisioni tecniche e politiche del proprietario, sottolineo che alcune Regioni si sono mosse in autonomia pubblicando veri e propri “portali del riuso” (ad es. la Regione Lombardia).

Da sottolineare anche il Piano Triennale 2020-2022 dell’AgID, che tra le priorità informatiche del nostro Paese (basate sulle indicazioni e normativa Europea) ha individuato anche la necessità di promuovere i dati pubblici come un bene comune (il patrimonio informativo della pubblica amministrazione è un bene fondamentale per lo sviluppo del Paese e deve essere valorizzato e reso disponibile ai cittadini e alle imprese, in forma aperta e interoperabile) e il software a codice aperto (le pubbliche amministrazioni devono prediligere l’utilizzo di software con codice aperto e, nel caso di software sviluppato per loro conto, deve essere reso disponibile il codice sorgente).

Se la situazione del Comune di Roma, una grande Amministrazione con migliaia di dipendenti e postazioni di lavoro, può aver fatto scalpore per l’entità della cifra coinvolta, sono sicuro che, sicuramente in misura ridotta, la stragrande maggioranza delle Amministrazioni Pubbliche Italiane si trova in condizioni analoghe. Solo qualche sporadica esperienza, concentrata soprattutto nelle regioni del Nord (mi pare di ricordare esperienze interessanti in Trentino Alto-Adige), è basata su soluzioni FLOSS: troppo poco per poter stimolare il cambiamento, ma sufficiente per introdurre esperienze concrete di quelle “buone pratiche” che, prima di tutto, sono a tutela di noi cittadini e del nostro Paese.

Mi auguro, quindi, che l’Amministrazione Capitolina decida di proseguire la sua strada verso l’adozione di soluzioni FLOSS, soprattutto in una fase che ha sottolineato l’importanza strategica del perimetro cibernetico, fatto sia dalle piattaforme software che dai dati che ci circolano. Liberarsi dal lock-in può costare molto, sia in termini economici che organizzativi, ma –come dice un vecchio adagio– la “libertà non ha prezzo”.

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