Tech workers, diritti e sindacati

Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica,
o meglio, ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile.”
Jorge Mario Bergoglio

A Bessemer, in Alabama, i lavoratori del centro Amazon stanno cercando di organizzarsi per chiedere un miglioramento delle proprie condizioni di lavoro. In tutta risposta Amazon, ormai praticamente “proprietaria” dell’intera cittadina –una delle più povere della zona– è arrivata addirittura a far cambiare lo schema di accensione dei semafori per impedire ai lavoratori di avvicinare gli automobilisti in attesa agli incroci.

È solo uno dei tanti esempi di moderno sfruttamento del lavoro, che arriva nello stesso momento in cui anche i dipendenti di Google cercano di organizzarsi sindacalmente per reagire al peggioramento delle condizioni di lavoro, anche se hanno già ottenuto una vittoria importante: Google pagherà la differenza salariale a oltre 5000 dipendenti donne e asiatici, retribuite meno dei loro colleghi. Sfruttando le condizioni di necessità della popolazione e il loro strapotere economico e politico, queste Aziende multinazionali –il cui fatturato supera il PIL di alcuni Stati– hanno ormai acquisito un potere contrattuale enorme, amplificato dalla situazione generalizzata di crisi economica causata dalla pandemia. Addirittura, in Nevada (USA), stanno per approvare una normativa che permetterà ad alcune Aziende di istituire degli “stati” nello Stato: delle “zone franche” dove le compagnie “would have at least $250 million and plans to invest an additional $1 billion in their zones over 10 years“. Niente di nuovo: delle “zone franche” ne parlava già Naomi Klein nel suo famoso libro “No Logo” pubblicato a inizio secolo, sollevando i medesimi problemi di sfruttamento e mancato rispetto dei diritti dei lavoratori.

Si parla della rappresentanza sindacale dei lavoratori nel settore delle Big Tech, ancora oggi non adeguatamente inquadrati e tutelati (in Italia, molti sono ancora “metalmeccanici”). Probabilmente a causa della velocità con cui il settore è cresciuto, con una miriade di aziende operanti nel settore informatico e telematico, si sta verificando un problema di competenze, tutele e retribuzione da non sottovalutare.

Anche in Italia la problematica inizia a farsi sentire. Sto seguendo con una certa curiosità l’iniziativa TWC – Tech Workers Coalition Italia, che vuole “conquistare maggiori diritti e migliori condizioni di lavoro, per noi e per tutti. Vogliamo ridefinire come la tecnologia viene prodotta, da chi e per quali scopi. Aumenti di salario, riduzioni dell’orario, ambienti di lavoro più salubri sono solo il primo passo” in un Paese dove gran parte della classe Politica non ha la consapevolezza di cosa sia il mondo ICT e l’importanza che ormai riveste nella società.

Riprendo le parole di una interessante intervista al prof. Nardelli, docente di Informatica all’Università di Roma “Tor Vergata”: “la condizione necessaria è diffondere la cultura scientifica dell’informatica. Siamo una società che sta diventando sempre più digitale, ma la scienza alla sua base, cioè l’informatica, di fatto è ignorata dalla maggior parte non solo dei cittadini, ma anche dei politici. Ci troviamo nella stessa ipotetica situazione di una società che vuole diventare industriale ma ignora le scienze alla base della tecnologia industriale tipo la fisica e la chimica“.

Credo che la consapevolezza sia essenziale per una corretta valorizzazione delle nuove professioni nel mondo digitale, anche con la nascita di rappresentanze sindacali focalizzate su tema necessarie a garantire sia il rispetto dei diritti dei lavorati che una adeguata valorizzazione delle competenze. Senza sfociare necessariamente nel corporativismo, iniziative come quella promossa dall’Agid per la definizione delle competenze minime digitali nel settore ICT sono da accogliere con favore: come abbiamo già affrontato in altri articoli su questo blog, l’Italia soffre di una cronica mancanza di competenze base ICT anche tra chi lavora davanti a un videoterminale, esponendo le nostre infrastrutture digitali (e i nostri dati) a rischi non trascurabili.

Stimolare la nascita di competenze e un adeguato riconoscimento delle stesse, quindi, non può che favorire la nascita di realtà anche imprenditoriali basate su modelli meritocratici capaci di offrire valide alternative occupazionali a tutti i lavoratori del settore ICT. A cui si aggiunge ovviamente una maggiore diffusione di consapevolezza in ogni segmento della società, stimolando innovazione e soluzioni tecnologiche al servizio della collettività (e non, come purtroppo avviene quando il gioco è condotto dai grandi player, la collettività che “subisce” l’innovazione). Anche la PA, ovviamente, ne beneficerebbe. A iniziare da una maggiore consapevolezza che permetterebbe, finalmente, di poter effettuare scelte adeguate alle reali necessità.

Quello che sorprende, per concludere, è l’assenza dei “grandi” sindacati nel dibattito: non si sono accorti che la società italiana, anche se lentamente, sta cambiando?

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