“E’ più facile appoggiarsi a un altro che stare in piedi da solo.”
Jack London
“Il dato per il 2016 delle licenze è molto elevato – circa 146 Mln€ – ovvero il 13% del totale della spesa IT rilevata.”. Così cita il Report dell’AgID per il Piano triennale per l’informatica nella PA 2017 – 2019, quando analizza la spesa per il settore IT delle pubbliche amministrazioni italiane. Scenario già di per sé desolante, che ci vede – secondo il Digital Economy and Society Index – nelle ultime posizioni, solo davanti a Grecia, Bulgaria e Romania.
Indicativa la parte rossa del grafico, quella relativa al “capitale umano”, la cui definizione data è
the skills needed to take advantage of the possibilities offered by a digital society. Such skills go from basic user skills that enable individuals to interact online and consume digital goods and services, to advanced skills that empower the workforce to take advantage of technology for enhanced productivity and economic growth.
per concludere con un desolante
44% of Europeans still do not have basic digital skills.
In Italia, questo dato sale al 60,4%. Le cause di questa situazione sono sicuramente molteplici, ad iniziare dall’atavico problema del digital divide che affligge, ancora oggi, gran parte delle provincie italiane e che, a fronte di investimenti e di milioni di €, sembra non vedere soluzione.
La PA, ovviamente, non può essere esente dalla drammatica situazione nazionale, riversando pertanto gran parte della richiesta di competenze presso fornitori esterni. Se da un lato questo ha favorito la nascita di tutta una serie di aziende che forniscono personale, prodotti e competenze, dall’altra l’ignoranza diffusa ha fatto sì che il mercato della PA si orientasse fortemente verso soluzioni commerciali (leggasi “licenze”) che purtroppo non stimolano né la ricerca né l’innovazione. Il dato del 13% dell’intera spesa nel settore IT è preoccupante.
Qui si torna ovviamente a parlare della necessità di promuovere con forza una cultura informatica che non si limiti a iniziative demagogiche come l’uso del tablet come strumento didattico ma che sappia, invece, formare gli studenti sia sotto il profilo teorico che pratico, possibile solamente grazie alla filosofia open: FOSS e open hardware.
Del resto, la stessa AgID ricorda che
ai sensi dell’art. 68 del CAD, l’adozione di software e applicativi open source è da intendersi come prioritaria, nell’ambito di una valutazione complessiva di rischio, di total cost of ownership e di capacità di utilizzo.
Ancora una volta, si parla di valutazione complessiva. Su 146 milioni di € di soldi pubblici finiti in licenze software, quanti di essi sono frutto di valutazioni oggettive ed equilibrate da parte di personale tecnico competente ? E quanti, invece, frutto dell’ignoranza, della superficialità, dell’abitudine di dirigenti pubblici dalla firma facile ?
Vedremo se il Piano triennale per l’Informatica nelle PA, approvato proprio in questi giorni, saprà dare una svolta efficace al nostro Paese. Come dice il commissario al Digitale, Diego Piacentini, il Piano “pone le basi per la costruzione di una serie di componenti fondamentali su cui le amministrazioni pubbliche possono realizzare servizi più semplici ed efficaci per i cittadini e le imprese, adottando metodologie agili, un approccio mobile first, architetture sicure, interoperabili, scalabili, altamente affidabili, e basate su interfacce applicative (API) chiaramente definite. Open source e collaborazione diventano il nuovo paradigma. Per la trasformazione digitale serviranno competenze, investimenti, tempo, dedizione e costanza.“.
Ecco, è proprio costanza che mi preoccupa di più.